Il rapporto con la fabbrica, con il lavoro quotidiano sempre eguale e pesante, diventa un racconto forte, di violenza, di alienazione, di necessità e desiderio di fuga, di annientamento, perché la fabbrica uccide, come accade, attraverso la storia del padre, ancor più in questo primo romanzo di Stefano Valenti, sinora noto solo come traduttore. La scrittura di Valenti, che dà voce alle esperienze dirette attraverso principalmente la figura di Cesare, sindacalista amico del padre, è coinvolgente e, pur sapendo essere tenera in certi momenti, colpisce duro, è nitida e arriva allo stomaco, non si tira indietro nel descrivere una realtà in cui esistono gli operai e poi gli altri uomini, perché la fabbrica è un mondo altro, un carcere di massima sicurezza, ma che ti uccide, perché di sistemi di sicurezza invece non ce ne sono e magari si lavora per anni respirando, vicino agli altiforni, polvere di amianto, così che asbetosi e mesoteliomi diventano le conseguenze inesorabili. Non a caso la seconda parte del libro racconta del processo ai dirigenti della Breda Fucine di Sesto San Giovanni per omicidio colposo, alla fine salvati dall’intervenuta prescrizione del reato, a seguito del riconoscimento delle attenuanti generiche. Il padre dell’io narrante, nato tra i monti della Valtellina, è uomoche vive la propria situazione sino in fondo, in lotta continua tra la propria occupazione distruttiva e la passione per la pittura, vissuta liberamente dopo che la malattia lo costringe a casa con l’impegno per cercare di divenire quell’artista che non riuscirà mai ad essere, ma convinto che sia «inammissibile condividere la propria vita, l’unica vita, con altre occupazioni che non siano la nostra occupazione », grande lezione che lascia al figlio. Per quell’uomo, per i suoi colleghi e amici che ne portano avanti la lotta dopo la sua scomparsa, l’operaio turnista è l’uomo più triste che c’è, il più solo e infelice «isolato nel rumore, nella polvere, nella paura» davanti alla sua macchina e per lui «è importante non lasciare trasparire la propria umanità, dal momento che l’ordine prestabilito della fabbrica non consente al pensiero di manifestarsi», non si possono avere tentennamenti, incertezze, distrazioni e quindi non resta che lo spazio per essere lì, concentrati e persi assieme, in una sorta di «volontaria sottomissione ». È la fabbrica del panico.