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14 maggio 1955

Le gloriose "tre giornate" del 383° Fanteria cremonese in Montenegro

Nella battaglia di Bioce (14-16 maggio 1943) cadde eroicamente il cappellano cremonese Don Veronesi

Annalisa Araldi

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aaraldi@publia.it

14 Maggio 2020 - 07:00

Le gloriose "tre giornate" del 383° Fanteria cremonese in Montenegro

Nel 1941 per le strade di Cremona si videro delle strane «reclute»: uomini anziani con valigie o zaini in spalla, tipici uomini vestiti da lavoratori o distinti professionisti si diressero alla spicciolata verso la caserma «Manfredini».
Erano i «richiamati» delle leve a cavallo del '900. gente che la guerra pensavano di sentirla soltanto alla radio e che ora una cartolina rosa aveva accomunato con altri soldati di diverse città, soldati già facenti parte di reggimenti semidistrutti dalla guerra oppure provenienti da ospedali da campo.

Un reggimento strano, dunque, venne organizzato a Cremona: il numero fu 383 Fanteria (un'appendice del reggimento titolare che era l'83°) della divisione «Venezia».
Nessuno pensava di andare al fronte e ognuno sperava, dato l'età di molti fanti, di finire a far funzioni di presidio nelle retrovie.
Ma anche il 383, dopo le normali e faticose esercitazioni, un bel giorno lasciò Cremona e partì per l'Albania.

Primo battesimo del fuoco, i primi morti, le prime azioni di combattimento, poi l'improvvisa partenza verso il Montenegro, nella zona «Piperi», avvenne il fatto d'arme più significativo riassunto dalla seguente motivazione per il conferimento della medaglia d'argento alla bandiera del valoroso reggimento:
«Durante tre giorni di aspra sanguinosa lotta, opponeva il petto ed il valore dei propri fanti all'impeto di preponderanti agguerrite forze nemiche. Caduto il colonnello e progressivamente la maggior parte degli ufficiali, sopraffatti alcuni reparti, non vacillò lo slancio né l'ardimento nei rimasti che, fedeli alla consegna, perduravano accanitamente nella lotta rispondendo alle ripetute intimidazioni di resa del nemico con furiosi contrattacchi. Preclusa ogni via di ripiegamento, all'estremo di ogni umana resistenza, i superstiti, strettissimi attorno all'ufficiale più elevato in grado rimasto, riuscivano in tempi successivi ad aprirsi il varco attraverso il cerchio avversario. La strenua resistenza ed il generoso sacrificio di sangue non solo consentivano, al sopraggiungere di nuove forze, di sventare definitivamente il disegno nemico di dilagare verso gli obiettivi a cui esso tendeva, ma crearono le premesse di un'azione che portò al quasi completo annientamento delle formazioni avversarie».

LE TRE GIORNATE
Era l'alba del 14 maggio 1943 allorché, a quota 610 iniziò la violenta offensiva nemica, il primo battaglione e la compagnia comando vennero travolti e annientati, ma la generosa azione del IV battaglione comandato dal col. Brocchieri valse a rioccupare la quota. Eroismo inutile perché improvvisamente, con un'azione combinata, nugoli di partigiani titini uscirono un po' da ogni dove, gridando, cantando, sparando all'impazzata contro tutti. Il primo bersaglio fu ancora quota 610 ove la nuova compagnia al comando del col. Vercesi, venne investita in pieno: il comandante trucidato, i soldati sgozzati e tra essi, figura ieratica e sublime, accorreva il cappellano cremonese don Pierino Veronesi, un sacerdote che aveva portato da Cremona una insolita bontà e carità. Anche contro il cappellano che innalzava la sua croce sui moribondi venne fatto fuoco a più riprese. Per quanto gravemente ferito don Veronesi continuò a recitare le preghiere tra i soldati morenti, e morì anche lui, mentre più alte si elevavano le grida dei partigiani e più aspra divampava, su tutte le quote, la battaglia.

Desolazione e morte dovunque, il 15 maggio; a quota 620 era tutto un cimitero e quando alla sera finalmente cessò l'infernale frastuono delle artiglierie, si levò, da invisibili nascondigli dei boschi il canto lento dei partigiani: «Bandiera rossa sotto il chiaro di luna...».

Era il momento buono per tanti superstiti di uscire dall'accerchiamento ed avvicinarsi agli altri battaglioni che erano rimasti fuori dal bersaglio nemico. Cominciò per alcuni soldati una marcia pericolosa, e terribile poiché quando meno se l'aspettavano vedevano pioversi addosso bombe a mano ed altre decine di uomini caddero nella lotta.

All'alba del 16 maggio riprese l'attacco nemico ed altri battaglioni si sacrificarono per non cedere il passo, mentre i primi ufficiali fatti prigionieri venivano fucilati ed impiccati dai partigiani. Gli uomini del 383° seppero resistere fino a sera. Ma il loro sacrificio non impediva il dilagare in tutta la zona delle formazioni titine.

Quando cessò la battaglia cominciò per i prigionieri un calvario inenarrabile: derubati delle scarpe, con un freddo pungente vennero condotti dai titini per alte montagne e valli senza che mai fosse somministrato loro del cibo; bisognava nutrirsi di lumache vive e di erbe e per di più bisognava fare come le bestie da soma, portando pesanti carichi di armi. Inutile aggiungere che ben pochi resistettero a tale odissea.

Questa la pagina gloriosa del 383° fanteria della divisione «Venezia».

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