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PENSIERI LIBERI

Per aiutare un povero bisogna dargli un volto

Nell’emergenza le relazioni contano: l’alternativa tragica si chiama indifferenza. Chi proviene da classi disagiate ha buona probabilità di rimanere tale tutta la vita

Don Bruno Bignami (Direttore dell’Ufficio nazionale  per i problemi sociali e il lavoro  della Cei)

30 Aprile 2024 - 05:15

Per aiutare un povero bisogna dargli un volto

Il prato è verde, più verde, più verde, sempre più verde. E il cielo è blu, blu, blu, molto più blu: così il rapper Ghali, nel suo tormentone sanremese. Il verde del prato e il blu del cielo nel quadro di un accattivante riff musicale regalano speranza. In Pianura Padana non sempre i colori sono così vivi, se è vero quello che abbiamo appreso recentemente dalla ricerca di Polis Lombardia. In provincia di Cremona vivono per strada 500 persone e oltre un homeless su cinque è minorenne. Dopo la metropoli milanese, è il territorio lombardo con il numero più alto di senza fissa dimora. Il fenomeno è in crescita a partire dal 2008 e genera pregiudizio e discriminazione.

In Lombardia i senzatetto sono più di 16mila e rappresentano il 16% del totale italiano (quasi 100mila). Il prato è meno verde e il cielo meno blu. Emergono due grandi questioni. La prima è che la povertà rappresenta una trappola. In un contesto di disuguaglianze sempre più accentuate, i poveri hanno meno chance di riemergere dalle sabbie mobili in cui si trovano. Non a caso la forbice si apre a dismisura. A livello globale, tra il 1980 e il 2016, la crescita di reddito è stata destinata per il 27% all’1% della popolazione mondiale più ricca, mentre il 12% è finito nelle mani del 50% più povero. La disuguaglianza sociale è legata a quella di reddito e molto dipende dall’istruzione e dall’occupazione.

Proprio la formazione scolastica e l’accesso al lavoro hanno rappresentato in passato l’ascensore sociale per molti, consentendo loro di uscire dalla soglia di povertà. Negli ultimi anni l’ascensore si è rotto e non si è ancora corso ai ripari. Il blocco della mobilità sociale è la vera trappola. Chi proviene da classi sociali povere ha buona probabilità di rimanere tale per tutta la vita. Nella cornice poco rosea vanno aggiunte la condizione giovanile e la disuguaglianza di genere.

In Italia l’abbandono precoce degli studi raggiunge il 12,7%, triplicando la media europea, i Neet (non studenti né in formazione) non scendono al di sotto del 20%. Il tasso di occupazione femminile e il divario retributivo sono fenomeni che pesano: a parità di lavoro le donne guadagnano meno. Il blocco è rafforzato dal lavoro povero, che si basa su contratti non rinnovati, precariato diffuso, forme di sfruttamento. Sta crescendo sensibilmente il part-time involontario, con persone costrette a lavorare poche ore al giorno e stipendi mensili sotto i mille euro. I salari che non tengono il passo dell’inflazione aprono a scenari drammatici, compreso il rifugio capestro nell’usura. Dunque, in molti casi la condizione economica della nascita permane vita natural durante. L’ascensore non riesce neppure a trasformarsi in scala.

La seconda questione riguarda la casa. Le politiche della casa non sono sempre coraggiose. Abbiamo per fortuna esperienze molto belle di housing sociale destinate a far crescere le forme di prossimità. Tuttavia, in molti casi, mutui e affitti rischiano di strozzare lavoratori precari o pensionati soli. Nelle località turistiche si preferisce guadagnare trasformando gli appartamenti in B&B piuttosto che affittare a prezzi calmierati alle famiglie o a studenti fuori sede.

La somma di egoismi fa perdere di vista il rapporto tra la proprietà e il bene comune. Il cardinal Matteo Zuppi ha segnalato il problema lo scorso novembre durante l’assemblea generale dei vescovi italiani ed è stato criticato aspramente: come si permette di mettere il naso nella proprietà privata? Il problema è che il pensiero sociale della Chiesa mette la proprietà individuale sempre in relazione alla destinazione comune dei beni. Detto altrimenti: ciò che uno ha è al servizio della vita di tutti, della comunione tra le persone. Abitare non è dunque possedere uno spazio, ma vivere relazioni. «Venite e vedrete» (Gv 1,39), risponde Gesù a chi gli chiede l’indirizzo di casa.

Casa e relazione vanno insieme. Offrire un tetto a chi non ce l’ha è anche preoccuparsi di inserirlo in rapporti sociali che incoraggiano la vita! Meritano un discorso a parte i territori delle aree interne, dove lo spopolamento e la perdita di prospettive future rendono le comunità sempre più povere dal punto di vista relazionale. L’isolamento pesa come un macigno. La scarsa densità abitativa è già di per sé poco appetibile dal punto di vista elettorale: pochi abitanti, pochi voti. E il degrado persiste. C’è però da chiedersi se il cremonese soffra più il complesso di inferiorità verso la città metropolitana ambrosiana o la scarsa immaginazione circa il futuro del proprio territorio.

Papa Francesco in 'Laudato si' ricorda che «ai problemi sociali si risponde con reti comunitarie» (n.219). È un metodo di lavoro. Ben vengano istituzioni come la Caritas e la San Vincenzo, che testimoniano storie gloriose di solidarietà. Intervengono però quando la povertà è conclamata. Tutti sappiamo che in campo medico prevenire è meglio che curare. E la prevenzione alla povertà sociale è data da una rete relazionale. Tutti devono sentirsi coinvolti: i Comuni, i paesi, le parrocchie, le famiglie. Per usare metafore tessili, si deve passare dai tagli alle cuciture. A tutti i livelli.

Occorre ripensare la tessitura sociale e comunitaria di un territorio. Ormai abbiamo capito che non sempre «piccolo è bello», perché spesso «piccolo è piccolo e povero». Punto. La differenza non la farà la ricchezza ma la qualità relazionale. Per questo occorre far parlare i numeri e dare un nome a ogni homeless. Chi sono quelli che non hanno casa? Quali forme di isolamento stanno soffrendo? E poi, in seconda battuta, quali energie positive si possono mettere in campo perché all’abbandono subentri la cura? Per aiutare qualcuno bisogna imparare a dargli un volto.

Un aneddoto. Poche settimane fa in carcere trovo di nuovo in reparto una donna che qualche mese prima aveva beneficiato dei domiciliari. Le chiedo come mai era ancora lì, in un luogo per me infernale. Mi risponde che non riusciva più a stare a casa, così ha chiesto di tornare in cella: la situazione familiare era insostenibile! L’ho abbracciata. Pochi giorni dopo, il Giovedì Santo, Papa Francesco viene a celebrare la messa ‘in Coena Domini’ con il rito della lavanda dei piedi. Partecipo anch’io e vedo la detenuta spingere la carrozzina di una persona disabile e accompagnarla sorridente a incontrare il Papa. Si è sentita valorizzata. Vorrà dire qualcosa, no? Quanto contano le relazioni nei nostri vissuti? Chi si prende cura della qualità relazionale delle nostre comunità? L’alternativa tragica si chiama indifferenza. Sempre Ghali rappa: «Sto già meglio se mi fai vedere il mondo come lo vedi tu». Con gli occhi del povero. Un nome, un volto.

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