L'ANALISI
12 Luglio 2022 - 19:40
CREMONA - «È la storia di quello che è un po’ il tormento del Nord-Est, il conflitto tra due tipi di imprenditori uno che fa il legittimo profitto e restituisce al territorio sotto forma di bellezza e di attenzione una parte dei soldi che ha preso e l’altro che invece è lo squalo e si mangia tutto, per cui il mondo finisce quando finisce lui. Naturalmente io sto dalla parte di coloro che amano la bellezza, e ce ne sono tanti, mentre detesto chi ci metterebbe il cemento anche sotto le ascelle, perché ha l’idea del territorio come una preda di cui appropriarsi a spese di tutti gli altri».
Con questi valori Fulvio Ervas, il «papà» letterario dell’ispettore Stucky, torna in libreria con «La giustizia non è una pallottola», la nona indagine, a quattro anni dall’ultima. Ne parla nella videorubrica «Tre minuti un libro».
Stucky, diventato popolare con il volto di Giuseppe Battiston nel film di Antonio Padovan «Finché c’è prosecco c’è speranza», dall’omonimo libro di Ervas, è sempre più ambientalista e questa volta è alle prese con due indagini, di cui intuisce la connessione.
Nel romanzo troviamo il signor Giustinian, imprenditore curioso e cercatore di bellezza, con una villona sulle colline del Prosecco dove avviene un omicidio e torna a galla il vecchio assassinio di un ragazzo, avvenuto in una cava 13 anni prima. Sulla piana, tra i campi di grano, compaiono spaventapasseri con la maglietta insanguinata che prima sembrano una burla e invece è un invito con minaccia a riaprire il caso.
«L’emblema è la bellezza e dietro c’è la storia di una cava di ghiaia espressione del territorio violato. Stucky è molto frizzante, ma i temi sono seri», spiega Ervas che si è ispirato «a figure di imprenditori veri del Veneto che è la Regione in cui si cementifica di più» e continua: «I campi di grano con gli spaventapasseri insanguinati hanno un valore simbolico , pensiamo all’Ucraina. Stucky prende in giro la borghesia trevisana e il mondo. La marca trevigiana non puoi raccontarla se non in punta di fioretto perché è una tipologia umana con cui bisogna sapersi rapportare, un po’ chiusa, non facilissima nell’approccio, e a me pareva che il fioretto, cioè l’ironia, fosse un modo per punzecchiare e far riflettere senza creare ferite eccessive».
Le sue storie sono sempre trattate in maniera molto garbata. «Corrisponde al mio carattere: non amo la violenza, non leggo libri e non vedo film in cui ci sia l’esposizione degli organi. Nei miei libri il sangue si vede poco perché sta bene nelle vene e nelle arterie. Il baricentro è sull’umanità, sui personaggi, sulle loro e nostre stravaganze».
Le sue sono anche riflessioni sull’uomo, a un certo punto c’è una dissertazione sulla teoria delle crepe. «Questa è una cosa che mi viene da lontano, da quando ero in quarta liceo. La teoria è questa: Stucky è convinto che le crepe siano un modo per valutare la consistenza del mondo. Si chiede se le crepe che vede nei muri delle case siano sussulti di dolore o di piacere: la bella cosa che succede a un edificio gli dà brividi di piacere e arriva la crepa. Nelle persone le crepe sono discontinuità che si creano nelle nostre corazze. Che però prendono due direzioni opposte. Da lì può entrare la bellezza del mondo, quindi tu rompi la tua difesa, ti relazioni con esso e stai molto meglio; dall’altro lato la crepa spesso è spesso il luogo da cui sfugge la nostra cattiveria, cioè tutta l’energia negativa incamerata. Stucky è un creatore di crepe positivo».
È anche molto riflessivo, il nostro, in questo romanzo. Si sofferma anche sul potere del pregiudizio perché nel corso della sua indagine si rende conto di averne e che ciò gli oscura la capacità di analisi.
«Ne ha nei confronti di una certa gioventù. Da uomo adulto, si trova a che fare con due giovani che esprimono rabbia, ma anche intelligenza e determinazione. Stucky li vede come degli esagerati testosteronici, superficiali - e in parte lo sono - ma poi ne scopre le parti migliori. Lui lo impara in questa indagine, io l’ho scoperto insegnando, che spesso invece sono le parti migliori di questa umanità. Io li chiamo ‘giovani super’, sono già cittadini pur avendo appena 18 anni. Noi siamo banali e superficiali, conflittuali. Sono forse il 15 per cento della nostra gioventù, davanti a loro dobbiamo inchinarci in quanto sono la garanzia per il nostro futuro. Vorrei che fossero il 75%, tocca a noi impegnarci per fare crescere questo 15%. Si può arrivare molto più in alto, dipende anche da noi».
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