L'ANALISI
10 Dicembre 2025 - 05:26
CREMONA - «Chiediamoci perché l’Europa è così afasica, frastornata, genuflessa», scongiura Paolo Rumiz, grande scrittore viaggiatore, «di fronte al soldato ucraino davanti al quale ci tocca abbassare gli occhi per la vergogna». Non chiede certo di imbracciare il fucile, ma di interrogarsi perché davanti a uno dei drammi più spaventosi di questi anni, il Vecchio Continente sta dimostrando di non aver appreso la lezione di due conflitti mondiali costati milioni di vite.
Con ‘Il fango e la neve’ propone ora una lettura che va al cuore della questione: sporcarsi le scarpe e l’anima nelle trincee della prima guerra mondiale nella speranza di sostituire la retorica patriottica del sacrificio alla pietas per chi ha versato il proprio sangue e vedendo il grande conflitto non più come scontro tra nazioni ma come memoria condivisa di un dolore comune.
Come spiega nella videointervista online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it, «la risposta credo non sia militare, ma culturale: non abbiamo una narrativa all’altezza della nostra storia e del nostro ruolo nel mondo». Il suo è un racconto intensissimo, dal Monte Grappa all’Altopiano di Asiago, dall’Isonzo a Redipuglia, da Trieste al Passo del Tonale. Cammina, pianta la tenda, osserva, ascolta e raccoglie storie di uomini e di terre ferite.
Un canto poetico e crudo, di rabbia e speranza, di meraviglie e sconforti, un libro che mette al centro l’assurdità della guerra e dà voce ai ragazzi che partirono, ai soldati che caddero, alle madri che attesero e alle donne che piansero. Una serie di racconti-reportage scritti nel 2013, alla vigilia del centenario della Grande Guerra: a piedi, zaino in spalla lungo i seimila chilometri di fronte calcando le terre in cui sono morti centinaia di migliaia di uomini con la consapevolezza di un paradosso: «C’era già l’Europa in quelle trincee», come titola la prefazione.
Ci sono trincee sul Carso distanti 10-12 metri, che, spiega, «significa condivisione di tutto, dalle parole perché ci si sfotteva, all’odore del minestrone, ai canti dei soldati. Si creava così una intimità, pur nella ferocia dello scontro, che ha creato una consapevolezza nei soldati finiti loro malgrado dentro quel tritacarne: tutti vittime della stessa macchina infernale di una guerra che teoreticamente nessuno sembrava volere».
In nuce l’unione c’era già: «Il momento della percezione dell’Europa è stata l’esistenza di un grande mercato comune, legato nei fatti ancora prima che nei trattati. Tra il 1880 e il 1913 la rete ferroviaria ha permeato l’intero continente, c’erano orari ferroviari europei, una cosa inconcepibile oggi. Ed è forse il rifiuto di questa interconnessione che ha generato la guerra, il timore che tale globalizzazione potesse andare a toccare i piccoli feudi in cui l’Europa era divisa».
Un conflitto in cui spesso, come Rumiz racconta, i soldati riuscivano a trovare momenti di umanità reciprocamente riconosciuta. «Su tutti i fronti c’erano momenti in cui soldati e sottufficiali non erano sotto l’occhio arcigno dei generali e in quegli squarci dalla brutalità del conflitto si creavano momenti di solidarietà. Se per esempio non arrivava il rancio, si consentiva al nemico di andare alla ricerca delle patate nei dintorni della trincea, il recupero dei feriti, addirittura giochi comuni».
E gli italiani? «Erano ottimi soldati, sicuramente più stimati dal nemico che dai loro stessi generali. Quando per clamorosi errori nella catena di comando c’è stato lo sfondamento di Caporetto, i generali non hanno fatto di meglio che dare la colpa ai soldati. Ma così non era. I generali avevano completamente ignorato i molti avvertimenti che venivano persino dalla bassa forza sul fronte. I nostri dovettero arretrare su linee molto più italiane di quelle dell’estremo confine orientale tra il Grappa e il Piave, si comportarono in modo egregio al punto da strappare i complimenti del grande Ervin Rommel, l’attore dello sfondamento sui monti d’Oriente, su Cividale, Udine e il Tagliamento».
Nel suo peregrinare Rumiz ha visto i luoghi sacri della Prima Guerra Mondiale. Momenti in cui ha sentito la suggestione del rombo dei cannoni. «In continuazione. Ciò che ti fa entrare prima nelle scarpe dei protagonisti di un’epopea è la lettura di testi dei protagonisti, testimonianze di chi quei momenti li ha vissuti in diretta. Su tutti, ‘Le scarpe al sole’ di Paolo Monelli, libro che ti trasporta in quei luoghi. Se poi vai a dormire in una tenda sotto un temporale ai piedi dell’Ortigara, capisci molto di più».
Rumiz è andato, per sua esplicita missione, alla ricerca della memoria condivisa, del dolore comune fra vincitori e vinti. «All’epoca del centenario speravo ardentemente che la Grande Guerra fosse presentata come una epica memoria comune di un’Europa che non doveva ricadere negli orrori di allora. Invece così non è stato. Nessuno ha avuto il coraggio di portare avanti questa memoria. Io invece ho vissuto la condivisione della tragedia e ho cercato di raccontarla da una parte e dall’altra. Ed è stato talmente importante farlo che ho avuto una telefonata a sorpresa da papa Francesco che mi disse di aver apprezzato la magnifica, disse proprio così, equidistanza tra vincitori e vinti».
Per Rumiz quel viaggio è stato una grande esperienza dell’anima. «Li sentivo quei ragazzi, bastava caricarmi uno zaino di 30-35 chili con i quali venivano mandati all’assalto. Vorrei che qualcuno provasse a farla l’esperienza di affrontare così le montagne, duemila metri di salita con tanti chili sulle spalle e poi andare all’assalto».
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