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‘L'ananas no’: aiuto, un morto in pizzeria

Cristiano Cavina crea Moretti, ex guardia carceraria ora piazzaiolo-investigatore. Un’indagine nella Romagna più vera

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

26 Giugno 2024 - 05:25

CREMONA - «Adoro l’umanità. È la gente che non sopporto», questo aforisma di Charles M. Schulz, il fumettista che ha creato i Peanuts, potrebbe essere stato scritto per Manolo Moretti, detective creato da Cristiano Cavina, al suo esordio nel mondo del thriller con ‘L’ananas no, un giallo romagnolo’. Lo scrittore di Casola Valsenio, gran raccontatore di storie della sua Romagna, si è sempre mantenuto – oltre che con l’attività di scrittore – con qualsiasi lavoro gli sia capitato: muratore, portalettere e soprattutto pizzaiolo. E anche per lui, mettere l’ananas su una pizza è come pubblicare un avviso di ricerca di personale per «neo laureati con 10 anni di esperienza», corteggiare una ragazza invitandola a un incontro di wrestling (Cavina però sarebbe capace di farlo), oppure calciare un rigore... di testa (Ndr: omaggio al romanzo ‘Un’ultima stagione da esordienti’ che lo ha fatto conoscere al grande pubblico).

Per Moretti, la pizza è la vita, e l’ananas è, contemporaneamente, l’umanità che lo circonda con le sue falsità, i suoi giochi oscuri, i suoi delitti, ma anche la sua bellezza e la sua semplicità. Tutta roba ostica per lui, ex guardia carceraria troppo sensibile per restare indifferente di fronte al suicidio di un detenuto e finito nei guai per aver fatto emergere abusi. Il suo cuore, però, resta aperto al desiderio di verità e giustizia. Per conseguenza, anche di nuovi impicci. Sommerso dai debiti che il suo magro stipendio non riesce a fargli onorare, vive in un camper sotto sequestro giudiziario e dell’amicizia di una famiglia di pescatori.

«Un uomo alla deriva con il cuore a brandelli, ma è il cuore di un uomo buono, credimi», scrive di se stesso. La morte fa capolino tra i tavolini del Gradisca - visto il contesto, la pizzeria non poteva che chiamarsi così -, i carabinieri aprono un’indagine. Nell’aria dolce della Romagna di fine estate, un delitto ci sta proprio come l’ananas sulla pizza: è un corpo estraneo, inquietante, incomprensibile. E per Moretti, che ha un passato pieno di segreti e una singolare incapacità di tenersi lontano dai guai, potrebbe essere l’occasione per ammettere che quello dietro il forno delle pizze è un nascondiglio da cui deve trovare il coraggio di uscire. Cavina parla del romanzo con Paolo Gualandris nella videointervista ‘Tre minuti un libro’.


«Per me Moretti è un classico romagnolo, tipo molto brillante dalla battuta sempre pronta in mezzo a gente con la battuta pronta. Abbastanza simpatico ma un po’ burbero, è il primo quando c’è da parlare di cavolate e sparare delle patacche, ma le ha anche lui le sue rogne dentro. Di quelle però non parla mai, preferisce seppellirle sotto un mucchio di cavolate, battute e controbattute. Come molti, cerca di tirare avanti nonostante il disastro che ha nella vita». Cacciato dal corpo di polizia, si è ritrovato a fare il pizzaiolo perché è il lavoro che faceva da ragazzo.

«E questa è una cosa che ha in comune con me». Giallo a parte (meglio non svelare troppi particolari), la bellezza dei suoi libri è il racconto di tutto quello che ci sta intorno, la varia umanità, il clima, la situazione, la gente. Per quanto possa apparire improbabile, come ammette lo stesso Cavina, «nessuno dei miei personaggi di questo romanzo è completamente inventato». Ed eccola questa variopinta galleria. Intanto il luogo: Gradisca è a Galatea a mare, «paese inventato, collocato idealmente fra Cervia, Milano Marittima e Lido di Savio. Non mi son permesso di prendere i posti veri perché li conosco i romagnoli, se sbagli a collocare una casa o il nome una via dopo non ti lasciano più vivere».

Poi il mondo che circonda Moretti: «tutti i personaggi hanno a che fare con persone che ho conosciuto soprattutto lavorando in pizzeria per tanti anni». C’è il proprietario Vittor Malpezzi, un ex detenuto, ‘curato’ proprio dal protagonista Moretti quando lavorava a Bologna alla Dozza. «Ho lavorato per un paio di chiamate in una pizzeria di proprietà di un ex detenuto che una volta uscito aveva creato un piccolo impero di due o tre locali», ricorda Cavina. Lo stesso vale per Moretti: «Quando gli ultimi anni stavo saltuariamente ancora da mio mio zio ed ero già scrittore, il suo pizzaiolo era Filippo, ex sovrintendente capo della polizia che in pensione aveva comunque continuato a lavorare giusto per occupare il tempo».

Esce dall’album dei ricordi dello scrittore anche Zafar, una sorta di santone: «Quattro anni nella pizzeria di mio zio come aiutante. Pakistano sempre con le cuffie, litigava con la moglie durante infiniti collegamenti telefonici intercontinentali o guardava soap opere in urdu con gente coi baffoni all’insù in sella a Cagiva degli anni ’80». La lavapiatti della pizzeria di Solarolo che ha ispirato questo locale è una ottantenne che fuma come una turca: vive a Parigi e torna nel suo paese natale solo l’estate a lavorare. Lo fa così, per hobby. La ragazza con cui Moretti canta lavorando in realtà non si chiama Sabri come nel libro, ma esiste, «è una mia cara amica che davvero ha perso una figlia e fa molti, troppi, lavori per non pensarci sempre».

Moretti ha due assistenti speciali, «la Channèl e il Paderna. La più particolare è lei, l’ho scoperto scrivendo. Si chiama così perché in Romagna con i nomi normali non siam capaci, adesso li voglion tutti esotici». Patita di delitti e di storie di crimine, va a chiedere alla gente del paese informazioni nei mercati, nei negozi, dalla zia del moroso, lei conosce tutti. Paderna invece «è un personaggio che non dovevo neanche stare lì a pensarci, perché praticamente quasi tutti le persone di dieci anni più anziane di me del mio paese son così, cacciatori, tartufai, dei Sandokan che vivono in mezzo alle foreste impenetrabili dell’Appennino e hanno ’ste jeep da safari improbabili».


Quella di Cavina, per sua stessa ammissione, «più che una storia gialla è una dichiarazione d’amore per i miei posti, per un’Italia provinciale che esiste ancora con la sua lingua un po’ sgangherata, coi suoi destini sgangherati, molto ironici, a volte tragici. Un po’ com’è la nostra vita. L’Italia sgangherata che però ha ha le sue regole». Infine c’è la faccia della Legge, il carabiniere che conduce le indagini. Rigoroso, serioso, aperto: «Mi piaceva l’idea di rendere un po’ giustizia all’Arma. A un certo punto dice: ‘a noi don Matteo ci ha rovinato’. Cioè arriva il prete e risolve i casi come se loro non riuscissero a farlo: no, di solito sono proprio i carabinieri a trovare il colpevole. Fra l’altro viene da una zona dell’Italia che, secondo me, noi siamo loro, nel senso che la penisola è fatta di tante Romagne. È originario di una zona appenninica che ricorda un po’ quella da cui viene il Paderna e suo cugino fa la stessa cosa là in Molise in Abruzzo, caccia e cerca funghi». Una scrittura frizzante, dei delitti, un’indagine, un colpevole, un po’ d’amore ma sopratutto tanta coloratissima, ma non perciò meno vera, umanità. Questi gli ingredienti del giallo alla Cavina. Così autentico nelle sue atmosfere che la pizzeria del morto potrebbe anche trovarsi dietro casa di ognuno di noi.

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