L'ANALISI
Una pagina di storia cremonese
10 Luglio 2015 - 15:04
CREMONA — Lo avevano trovato senza segni di ferite, il dito in bocca a mo’ di ciuccio: Lino Camozzi aveva solo sei mesi quando dal cielo all’improvviso piovvero bombe. E’ Lino, morto insieme alla sorellina Ivana, che di anni ne aveva 4 la vittima più giovane del bombardamento del 10 luglio del ‘44. A settantun anni di distanza, quel giorno drammatico è ancora vivo nella memoria dei testimoni di allora, dei sopravvissuti alle bombe americane, di quanti in quella mattina estiva videro il cielo diventare nero di fumo e sentirono le urla e i pianti dei feriti. Il dolore e lo sgomento di quel giorno e di quelli che seguirono hanno segnato la memoria collettiva dei cremonesi: chi c’era, chi accorse a prestare soccorso, chi perse un parente o un amico, chi si precipitò a casa col cuore in gola per dire di essere vivo e far la conta della famiglia non ha potuto dimenticare e ha sempre raccontato, tramandando a figli e nipoti il senso di una memoria viva.

Era un lunedì, quel maledetto giorno di luglio. Era un giorno ‘normale’ perché anche quando si è in guerra c’è da fare la spesa o sbrigare commissioni, e c’è da andare a lavorare perché anche quando si è in guerra, soprattutto quando si è in guerra, si deve pur tirare avanti. Alle 10,44 suonarono le sirene dell’allarme, ma troppo tardi: le bombe, in sei ondate successive, caddero praticamente in contemporanea e pochi riuscirono a mettersi in salvo nei rifugi. L’obiettivo degli aerei americani B17 Fortezze Volanti — che sganciarono una cinquantina di ordigni di medio e grosso calibro — era la stazione con la vicina zona industriale, ma furono pesantemente colpiti porta Milano e via Palestro, il cimitero, il mulino Rapuzzi al bivio della strada per Piadena-Olmeneta, i campi di mais oltre la Cremonella, via Sauro, la Cavalli e Poli, via San Francesco. Il giorno dopo Il Regime fascista di Roberto Farinacci parlò di «quartieri popolari duramente colpiti», ammettendo che «si lamentano numerosi morti e moltissimi feriti, in gran parte donne e bambini». Per raccontare la più grave tragedia bellica vissuta da Cremona e dai cremonesi fu sufficiente una colonnina nele pagine interne del giornale, come se una tragedia tanto grande potesse essere nascosta o censurata. L’inferno non durò molto, anche se il cessato allarme suonò solo intorno alle 13.

Il bilancio fu pesantissimo: i morti furono 132 (compresi tredici militari tedeschi), i feriti almeno un centinaio. Tra i ferrovieri, uccisi mentre erano sul lavoro, le vittime furono ventisette. Per molti sopravvivere o morire fu questione di scelte improvvise o casi fortuiti: scappar via verso un prato, essere alla finestra oppure in una stanza interna della propria casa, stare su un lato o l’altro del marciapiede.

Lino e Ivana Camozzi non furono gli unici bambini uccisi. Fioretta Doria ed Enzo Pradella avevano cinque anni, Gianfranco Rossi dieci, e altri ragazzi morirono: vite spezzate senza una ragione. Come ogni grande tragedia, anche il bombardamento del 10 luglio fu teatro di molta solidarietà: i soccorsi furono immediati e, oltre ai vigili del fuoco, alle ambulanze e ai militari nelle zone colpite arrivarono tantissimi volontari, qualcuno con auto e furgoni, e poi molti sacerdoti, i padri barnabiti, i francescani, i cappuccini.

L’ospedale e il cimitero ospitarono le camere mortuarie e videro il dolente pellegrinaggio di chi andava a riconoscere le vittime. Forzosamente frettolosi furono invece i funerali. L’arcivescovo Giovanni Cazzani fece affiggere sui portoni delle chiese cittadine un avviso che non dava molte alternative: «La frequenza degli allarmi non consente lunghe funzioni».
Barbara Caffi
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