L'ANALISI
28 Settembre 2025 - 05:05
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
(Lc 16,19-31)
Quante volte desidereremmo un bel miracolo potentissimo, chiaro ed efficace! Quante volte, per placare i nostri dubbi o risolvere conflitti interiori, ci vorremmo affidare a forze esterne, capaci di sostituirci con velocità e forza! Nella celebre parabola di Lazzaro e del ricco Gesù conclude con tutt’altro suggerimento. Nemmeno se uno risuscitasse dai morti… nemmeno se vedessimo fenomeni paranormali, il nostro cuore potrebbe dirsi davvero guarito e potrebbe credere. Il processo che davvero risana è come la combinazione di alcuni farmaci salva-vita che necessitano una giusta posologia, un’assunzione regolare e una assimilazione quotidiana. Perché il cuore, ovvero la nostra coscienza più profonda, il luogo in cui siamo capaci del bene più grande, ma anche del male più radicale, è impastato di storia, si regge su strutture esposte alla ruggine, perde sovente elasticità e si sclerotizza. Proprio come accade al muscolo cardiaco che si ammala per l’età, le condizioni di vita, gli stili che si accumulano anno dopo anno, gli stress che la vita costringe a subire.
Luca fa dire al povero Lazzaro che l’antidoto alla corruzione della vita e alla sua degradazione irriconoscente e meschina è avere Mosè e i Profeti, la legge e la sua radicale applicazione nella giustizia della vita, degli affetti, delle cose. È questo bene immenso, questa sapienza certamente ricevuta sin da piccolo, che il ricco (l’Epulone della tradizione) ha rimosso e messo a tacere. Nella sua vita il sensazionale, ciò che eccede e satura i sensi e le aspettative esteriori già c’è: è l’impiego sconsiderato dei mezzi a sua disposizione che lo spinge a vivere come in uno stagno ove galleggia, molle e – si dice - dissoluto. Ciò che sparisce da quella condizione è lo sguardo empatico, il coinvolgimento dell’animo, la cura di quell’organo spirituale che è la coscienza. Quest’ultima è talmente ottenebrata, disattivata, da rendere cieco il ricco davanti anche alle piaghe di Lazzaro e alla sua postura di miserabile: pieno di piaghe, giù, in terra, insieme ai cani. Mosè e i Profeti, invece, hanno comandato e comandano tutt’altro: raccomandano e ordinano occhi aperti, reattività vera davanti al prossimo, al simile, all’ultimo. Le pagine dell’Antico Testamento, oggi invocate a sostegno dell’indicibile e dello scandaloso, sanno vibrare per la difesa dell’ultimo, come ricorda la logica dell’Anno Giubilare: predicano la restituzione e la riconciliazione, l’ospitalità e la dignità, non pronunciano mai sostegni incondizionati alla prepotenza dell’uomo.
Ed è su questa parola, che resta debole e fortissima al tempo stesso, che si gioca la libertà del ricco e, ultimamente, di tutti noi. La scena del racconto è volutamente bipartita, dualista. C’è un alto e c’è un basso, c’è una gioia e c’è un tormento; e in mezzo un muro invalicabile che racconta della drammatica irreversibilità di certe scelte. Tutto è descritto in termini contrapposti, perché si capisca bene che a lungo andare, con stili di vita quotidiani sono questi i due esiti che costruiamo per noi stessi e per quanti ci circondano. Mosè e i Profeti rompono la tranquilla assimilazione della vita, perché insistono sul suo carattere ambivalente, misterioso, anche pericoloso, davanti al quale serve vigilanza. Luca riprende lo stile educativo di certa letteratura morale che spaventa con i suoi toni bruschi e duri perché non ci sia spazio per l’equivoco. Di più: perché ci sia spazio per un ascolto autentico della parola di vita. Senza parole, senza quel suono che è carico di senso, perdiamo tutto: non siamo più nemmeno spettatori della vita, più nemmeno ce la godiamo. Siamo solo travolti perché sparisce dal nostro orizzonte il codice interpretativo che dà senso, spessore e profondità a tutto. Anche ad una ricchezza non necessariamente acquisita con l’inganno; anche ad un potere che non per forza è sinonimo di corruzione o ipocrisia. E dentro questo mutismo che prosciuga il senso, tutto diventa possibile: anche la distorsione del reale o, peggio, la sua rimozione.
Come sarebbe urgente trasportare questo racconto dentro le tante insensate ricchezze di oggi, sulla tavola dei tanti banchetti di esclusione e di morte di oggi. Resta la parola di Mosè e dei Profeti a ricordarci da che parte stare.
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