L'ANALISI
03 Novembre 2024 - 05:10
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza’. Il secondo è questo: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Mc 12,28-34
Se lo chiedeva già Benedetto XVI. Si può trasformare l’amore, che per la maggior parte di noi si riferisce naturalmente ad un atteggiamento spontaneo, istintivo, in un comando, in una obbligazione morale, sanzionata addirittura da Dio? Eppure, nell’incontro “tra specialisti”, tra un Rabbi e uno scriba, entrambi con le mani in pasta nelle cose del Dio degli Ebrei e nella Torah, non c’è spazio per equivoci. Dio – secondo Gesù – ordina agli uomini l’amore, una dedizione totale all’altro, prima nella forma metafisica, celeste di Dio, poi, parallelamente, in quella orizzontale, terrena e palpabile del prossimo, ovvero di chi ci sta accanto, chi è al nostro fianco e confina, con la sua libertà e la sua fragilità, con il campo delle nostre competenze, dei nostri territori personali.
Addirittura, la questione è così importante che nel dialogo con lo scriba emerge che questo duplice comandamento diviene la verità della stessa religione, sino al punto di prendere il posto di ciò che dovrebbe servire ai credenti per entrare nella mentalità di Dio: i sacrifici e gli olocausti, ovvero i gesti di culto e le devozioni, il tempo e lo spazio dedicati a Dio… sono superati, inverati dall’amore. E non per buonismo o per eccesso di zelo di misericordia, ma per una intima necessità che deriva dalla natura stessa dell’uomo: quanto siamo portati ad evadere, a giocare di specchio e di sponda!
Quanto è facile traslare in cielo, o semplicemente nello spazio cultuale del sacro, di ciò che è intoccabile e dunque al sicuro, i blocchi che rendono infernale la vita di relazione, quella sociale e familiare, quella del nostro essere qui e non altrove. Diversi decenni fa si inneggiava all’oppio come al descrittore più autentico della religione, nata, per qualcuno, come potente distrattore, un oppiaceo appunto, la cui funzione sarebbe quella di controllare, smorzare, rinviare, spostare.
Al contrario, il duplice comandamento dell’amore agisce da terapia anti-stupefacente: disintossica dai trasferimenti aerei della religione e rimanda al cuore, al coinvolgimento di tutta la persona nell’unico atto che davvero qualifica l’essere umano come tale. Altrove Giovanni sosterrà che l’amore – in greco agàpe, ovvero l’amore gratuito che nulla pretende in cambio e che si dimentica di sé come accade nella migliore e più matura fecondità – è il nome stesso del Dio di Gesù, quel Padre che si inventa una appassionata storia di salvezza strutturata non su concetti teologici, ma sulla condivisione dell’ultimo posto, proprio là dove aver bisogno di salvezza, di liberazione e di comprensione non è un lusso, ma l’esigenza fondamentale. È la vicenda del crocifisso, non solo vittima di una palese ingiustizia come ve ne sono a miriadi nel mondo, ma soprattutto scelta di amore, nel posto poco invidiabile dell’ultimo, reso deserto dall’astensionismo dei benpensanti.
E di fronte alla potenza della duplice parola di vita non sorprende che in Marco nessuno abbia più il coraggio di interrogare Gesù: che cos’altro ci si può aspettare dalla legge di Dio sulla vita dell’uomo se non il dono, il coraggio del servizio e l’abbassamento delle difese che rendono l’altro solo una minaccia? Quale sublime dottrina che riguardi cielo, angeli o divinità può essere più appetibile, più straordinaria di questa? E tanto da divenire “morale”, ovvero una chiara regola di comportamento, un “abito” da indossare perché esprima la “forma” della mia vita, della mia storia più profonda, oltre gli inganni e i tentativi di minimizzare che ci portiamo dentro?
Ponendo il duplice comando in forma di massima norma morale, Gesù ha svelato il cuore dell’uomo all’uomo; e non solo il cuore del praticante religioso, ma – a ben vedere – di ogni uomo: che il vero bene sia fuori di noi, che nessuno possa vivere per se stesso, che le nostre migliori energie, a cominciare dal nostro tempo, possano esistere per venire impiegate in riferimento all’altro… è la libertà nella sua forma più alta. Anche in questo caso, come già nelle “dieci Parole di vita” dell’Antico Testamento (i dieci comandamenti di Mosè), l’imperativo non è espresso solo in forma negativa, non individua un confine da non superare; al contrario apre alle praterie immense della storia, all’intreccio imprevedibile di quanto accade ogni giorno e, così facendo, libera la morale, l’obbligazione del comando, dalla sola funzione esecutiva. Amare con tutto noi stessi sì, ma chi? Quando? Come? Qui è lo spazio dell’intelligenza umana che custodisce una legge profonda e la interpreta, pagandone di persona il prezzo.
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