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LE STORIE DI GIGIO

«Il mio terribile Vajont», il sacrificio del ricordo

Paolo Pasquali, 82 anni, è uno degli otto vigili del fuoco cremonesi (due ancora in vita) andati a prestare soccorso: «Solo chi è stato là, tra morti e fango, può veramente capire»

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

16 Ottobre 2023 - 05:25

«Il mio terribile Vajont», il sacrificio del ricordo

Paolo Pasquali, 82 anni, uno degli otto vigili cremonesi mandati a prestare soccorso alle vittime del disastro del Vajont

CREMONA - Nove ottobre 1963, intorno alle 23: «Quella sera ero io di guardia al centralino. Ci hanno chiamato da Milano per avvertire che era accaduta una tragedia e che dovevamo partire subito». Paolo Pasquali, 82 anni, occhi chiari e gentilezza dipinta sul viso, è uno degli otto vigili del fuoco cremonesi (due dei quali ancora in vita) mandati a prestare soccorso alla gente del Vajont. Alle 22.40, mezz’ora circa prima di quella telefonata, una frana di migliaia di metri cubi si era staccata dal Monte Toc, aveva superato la diga ed era caduta nel lago artificiale sottostante provocando un’onda colossale precipitata a valle come una furia: spazzò via i paesi di Longarone (Belluno), Erto e Casso (Pordenone). Intere comunità distrutte. I morti: 1.917, 487 bambini e ragazzi.

«Facevo il servizio militare come vigile del fuoco ausiliario», Pasquali comincia così a descrivere, 60 anni dopo, il suo Vajont. Il tavolo di vetro nell’ampio salone della casa luminosa è ricoperto da articoli di giornale, fotografie in bianco e nero e documentazione varia dell’epoca. «Allora la caserma dei pompieri era a porta Venezia. Ho alzato la cornetta, dall’altra parte l’ingegner Brunelli, che mi dice: con chi sto parlando? Io: sono Paolo Pasquali, agli ordini. Lui: mi passi il comandante e faccia scattare immediatamente l’allarme. Dopo aver parlato con il suo superiore, il nostro comandante, l’ingegner Bruno Bazzani, ci convoca per comunicare che dovevamo muoverci senza perdere neanche un istante».

I pompieri cremonesi al Vajont


Destinazione Longarone. Una squadra formata, oltre a lui, da altri sette colleghi: il brigadiere Cavalloni, i vigili scelti Zorza e Bertoglio, i vigili Napoli, Loffredo, Spotti e Migliorini. «Componevamo una colonna di tre automezzi attrezzati, davanti c’ero io al volante di una jeep, dietro due camioncini. Abbiamo tirato, tirato sino a Belluno, per il rifornimento di benzina. I caselli autostradali erano aperti, la polizia faceva continuamente segno di non fermarsi, di passare. Quella notte ho guidato come un pazzo». Un pazzo veloce ma non temerario: aveva ottenuto il brevetto e faceva da autista al comandante. Da Belluno, riempito il serbatoio, a Longarone, la meta della missione.


«Qualcuno ci ha accolto calorosamente: Cremona, bene, avete fatto in fretta. Poi...», l’ex vigile si commuove e non finisce la frase. Chiede scusa e riprende: «...Poi abbiamo visto la prima catasta di cadaveri. Avevamo intuito che ci saremmo trovati nel mezzo di una grande sciagura, ma non immaginavamo lontanamente che potesse essere di quelle proporzioni». Corpi ovunque: nel fango o nell’acqua, braccia e teste staccate dal tronco. «Il Piave cominciava a calare di livello e a restituire lentamente le vittime. Il nostro compito era cercarle sotto le macerie, recuperarle e trasferirle al cimitero. Ricoperte da lenzuola e adagiate sulle nostre scale di legno trasformate in barelle o sui camion. Lo abbiamo fatto per tutto il tempo, tra le aspersioni di insetticidi e disinfettanti, in cui siamo rimasti là».

Paolo Pasquali davanti alla diga


Due settimane terribili, scolpite in immagini che hanno lasciato ferite probabilmente inguaribili.
«Mi sono ritrovato vicino alla chiesa del paese, che all’inizio era in parte sommersa. Ricordo come fosse ieri una signora molto distinta che mi ha dato una pacca sulla spalla dicendo: scava, scava. Sperava di trovare suo figlio. Ma ciò che davvero non potrò mai dimenticare è il suono dei cadaveri ammucchiati uno sopra l’altro. Quel rumore mi paralizzava». Giorni scanditi da dolore e fatica, fatica e dolore: «Mi è corso incontro un bambino che era stato morso da un cane e che aveva la mano sanguinante, quasi amputata. L’ho caricato sulla jeep e portato subito all’ospedale ma, durante il tragitto, mi sentivo svenire e per la stanchezza ho letteralmente infilato il capo dentro il volante, non so se mi spiego. I medici mi hanno fatto una puntura per rimettermi in piedi spronandomi: dai, devi andare avanti».


Per i soccorritori erano stati allestiti dei campi con le tende. «Ma ci hanno lasciato senza niente. Per fortuna le suore, quando arrivavamo al camposanto, o i preti del posto ci davano qualcosina da mangiare. Sì, capitava di interrogarci sulle possibili cause della sciagura, ma avevamo altro cui pensare». Dopo 14 giorni tra le salme, il volontario, allora ventiduenne, è rientrato, con i sette colleghi, a Cremona per ripartire quasi subito per un’alluvione nel Milanese. Ma niente al confronto di quell’onda. Poi il servizio militare è terminato. «Il comandante mi ha proposto di restare, ma gli ho risposto di no perché desideravo dare una mano a mio mio padre nella conduzione della sua azienda». In tutti questi anni ha parlato raramente in famiglia di quei momenti: lo ha fatto in qualche Natale quando i cuori si sciolgono, e in poche altre occasioni. E, soprattutto, non ha più voluto tornare sui luoghi del disastro. «Alla vigilia di ogni 9 ottobre mi estraniavo».

Pasquali con la moglie Raffaella alla commemorazione


Stavolta, però, convinto dalla moglie Raffaella e dal figlio Andrea che gli hanno affettuosamente chiesto se se la sentisse di farlo, ha deciso, vinti dubbi e resistenze durati una vita, di accogliere l’invito dell’Associazione nazionale vigili del fuoco in pensione, per il tramite del rappresentante cremonese Roberto Denti, di andare a Longarone per partecipare, con tutti gli altri soccorritori, alle celebrazioni del 60° anniversario della frana. Era una domenica, il lunedì dopo è arrivato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Quel paesino di montagna fa impressione, interamente nuovo, ricostruito com’è. Gli abitanti ci guardavano e applaudivano. Il momento più emozionante è stato quando, al termine delle messa, la fanfara degli alpini ha suonato Il silenzio». L’ex autista in divisa è salito in alto sul monte e ha visto per la prima volta dopo tanto tempo anche la diga della sua giovinezza.


«Si fa alla svelta a parlare di duemila morti, ma chi non è stato là non può capire». Al centro del tavolo un bel volume fresco di stampa, ‘I Vigili del fuoco e la città di Cremona’: è aperto sulla pagina in cui si cita l’attestato di riconoscenza rilasciato, nel 1983, dal Comune di Longarone, a firma del sindaco Ilario Venturoli, al Comando provinciale dei pompieri di Cremona. Con la seguente motivazione: ‘La nostra popolazione non dimentica le vittime innocenti e riabbraccia quanti si sono prodigati nell’aiuto del superstiti’. Il padrone di casa ricaccia indietro l’ultima lacrima e richiude il libro. «Ecco, ce l’ho fatta a raccontare il mio Vajont». Il sacrificio della memoria.

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