L'ANALISI
14 Marzo 2018 - 18:56
Vi è stato un tempo in cui vivevamo e lavoravamo all’interno di democrazie più o meno rappresentative producendo valore. Quel valore - economico, sociale, politico - creato dai nostri sforzi metteva in moto il cambiamento e la mobilità individuale e /o sociale. In ambienti prevedibili e non estremamente minacciosi: lavoravamo, imparavamo, ci perfezionavamo e potevamo ambire a diventare migliori. Quel tempo si chiamava Novecento. Quel tempo è finito.
Le elezioni politiche del 4 marzo 2018 hanno risvegliato in tutti noi questa consapevolezza. Nonostante le avvisaglie degli ultimi anni, avvenute in Europa e nel mondo, da Brexit a Trump, la coscienza critica e mediatica del Bel Paese era ancora immersa in dibattiti nostrani. Con stampa e TV prive delle riflessioni capaci di prepararci ai cambiamenti all’orizzonte. Dal 4 marzo non più.
Ci dovrebbe essere chiaro che questo voto non solo sancisce la fine della politica ideologica novecentesca, classicamente intesa, data l’affermazione di un movimento dichiaratamente post-ideologico, ma soprattutto mettono in evidenza l’urgente cambio di paradigma in corso che le nostre Istituzioni, i nostri Governi e persino i nostri personali modelli di mondo devono fare. Non viviamo più in una realtà novecentesca dove se lavori puoi produrre più ricchezza e diventare migliore. Le nostre democrazie da case sicure si stanno trasformando sempre di più in ostelli minacciosi. Già molti (studiosi e non) alla fine degli anni Novanta lo aveva annunciato, ma quello che sembrava una cupa profezia oggi è realtà quotidiana.
Tale cambiamento riguarda la struttura profonda delle nostre vite e delle democrazie occidentali stesse. Queste, ci hanno trasmesso il culto dell’apprendimento diffuso, del lavoro, della mobilità sociale, del salario, dello sviluppo, della proprietà, della condivisione, della libertà individuale e collettiva, del progresso (possibile), della solidarietà sociale. Alcuni dei valori che le Destre e le Sinistre si sono contese nell’arco del Novecento e che oggi passano da una mano all’altra.
Ma i culti cambiano soprattutto quando gli ambienti si trasformano e si estremizzano, diventando habitat in cui il tuo lavoro non produce un reddito capace di crearti una mobilità sociale, i tuoi apprendimenti non sono più sinonimo lineare di carriera, la proprietà dei mezzi e dei fini economici non è più tua, ma viene passata alla sovranità di macro-strutture lontane dai tuoi territori, nuovi popoli e persone – in condizioni disperate – premono, e giustamente, per una vita migliore. Il futuro diventa improvvisamente incalcolabile e imprevedibile per noi cresciuti a “pane, amore, fantasia e democrazia”.
Il culto occidentale si frantuma e nelle nostre mani rimangono le briciole. Di fronte alla solidità che si fa polvere ci spaventiamo, ci sentiamo impotenti e abbandonati. E allora vediamo sorgere minacciose e maestose - quasi bibliche - le paure ataviche:
• la povertà: ecomomica, sociale, affettiva, etc;
• la sicurezza: individuale, sociale, di genere e generazionale;
• il domani: inacessibile, incomprensibile, opaco.
Di fronte all’atavico, la “cravatta regimental” o la “camicia bianca” dei nostri centro-destra o centro-sinistra scompare. E l’Italiano “moderato” si scopre all’improvviso “estremo” e inizia a reagire in modo “radicale”. Forse dobbiamo rinunciare all’etichetta del “populismo”, perché questa “tag” non ci fa comprendere - in modo sistemico - i problemi che abbiamo di fronte. Forse sia a destra che a sinistra, ammesso che tali distinzioni abbiano ancora senso, dobbiamo iniziare a pensare cosa significa vivere e fare politica in una globalizzazione tecno-finanziaria:
• aggressiva: perché non tiene conto delle esigenze di popoli, distrugge identità secolari, avversa ogni forma di libero pensiero
• manipolativa: perché con gli algoritmi e l’ “economia del like” ti fa credere di esprimerti mentre sei sempre più controllato e guidato nella tua esperienza di vita e consumo
• monopolistica: perché accentra sempre di più poteri e fa convergere interessi in super-classi provilegiate, che vivono nei loro templi
• egoista: perché non pensa a uno sviluppo interdipendente ma semplicemente al proprio auto-sostenamento.
La narrazione dell’età globale, iniziata sotto la dialettica della condivisione e dell’incontro, si ritrova all’interno della più perversa retorica della tecno-finanza globalizzata che consuma le nostre stesse vite senza più ricambiare il sogno di consumo. Tuttavia, questa globalizzazione tecno-finanziaria, opaca, è oggi sempre più spesso visibile, identificabile in nomi e cognomi, famiglie politiche, gruppi di potere. Come ha evidenziato David Rothkopf nell’ottimo testo Super-class.
A noi tutti – che ci siamo risvegliati nella Terza Repubblica, ma sarà davvero così? – il compito di ricominciare a fare politica, riqualificando e ridando valore alle Sinistre e alle Destre nella dialettica democratica. Ma soprattutto a noi il compito di chiedere alle tecno-elite, via via più visibili e riconoscibili: confronto, trasparenza, responsabilità.
Le democrazie non possono essere ostelli.
L’autore.
Andrea Fontana è sociologo della comunicazione, Premio Curcio alla cultura 2015 e TEDx Speaker. Imprenditore, docente universitario e storytelling activist. Ha introdotto in Italia il dibattito teorico e operativo sulla “narrazione d’impresa”. Amministratore delegato Storyfactory e docente di “Corporate Storytelling” all’Università di Pavia dove è anche Direttore didattico del primo Master universitario italiano in scienze della narrazione: MUST. Come sociologo della comunicazione adora mettersi la “tuta blu” e sporcarsi le mani nella pratica quotidiana ma ogni tanto ama anche mettersi il “camice bianco” dello “studioso” che cerca di capire i fenomeni sociali contemporanei.
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