L'ANALISI
01 Aprile 2021 - 20:45
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«Quem quaeritis?» chiede l’Angelo del Sepolcro. E le donne rispondono: «Jesum». Due battute, ma è quanto basta perché «ecco per la prima volta nell’Europa moderna, prodursi il dramma regolare, comportante un dialogo fra personaggi determinati», scrive Mario Apollonio nella sua Storia del Teatro. E ancora: «In verità il dramma moderno, se è proprio necessario cercarne qui o là le origini, in un fenomeno di autonomia tecnica, anziché in un fenomeno di autonomia spirituale, nascerà quando questi frammenti, anziché rifugiarsi nel quadro della liturgia tradizionale a cercare una giustificazione ch’essi sarebbero incapaci a dare a sé medesimi, costruiranno da sé il loro edificio». Come dire il teatro (theatron) è in nuce, il suo rinnovamento, la sua urgenza antropologica partono da lì, dalla ricerca, dalla domanda: «Chi cercate?».

Eppure la lettura della Passione di Cristo dialogata nei riti pasquali dalla Domenica delle Palme al Venerdì Santo è teatro, è il racconto partecipato del sacrificio dell’Agnus Dei davanti alla comunità, l’ecclesia, assemblea riunita, la comunità degli oranti. La Via Curcis con le sue stazioni è rito teatrale (?), è un susseguirsi di parole che sono ed evocano azioni e che chiedono di assistere, partecipare, emotivamente, ma anche - spostandoci nello spazio – fisicamente, partecipando col corpo a ciò che accade. Nella Via Crucis si segue passo passo il Calvario del Cristo, si è spettatori del rito, del sacrificio dell’Agnus Dei, del superamento del meccanismo vittimario del capro espiatorio, direbbe René Girard. Davanti al racconto della passione e morte di Cristo si è testimoni, spettatori. Siamo in platea, nella piazza dove si assisteva alle prime Sacre Rappresentazioni, siamo communitas, rappresentanti scelti, assemblea appunto che partecipa a ciò che accade, al Drama, alla parola che si fa azione. E se la parola evangelica – per chi ha fede – è parola che trasforma, la parola poetica – al di là del credere o meglio proprio per la fede riposta nel verbum – è parola che fa, che costruisce mondi, che crea.

Parola demiurgica e perché no: drammaturgia, ovvero, la scrittura di un agire e fare in uno spazio in cui si assiste e si è visti, quel teatro che le prime forme di rito liturgico allocavano nella chiesa (ecclesia) o nella piazza (platea). In un contesto laico saranno i corrales i cortili delle osterie, le corti e – ancora - le piazze delle città ad ospitare il theatron, o meglio a farsi theatron, luogo della visione, in cui si assiste a ciò che accade (drama), ma al tempo stesso si è visti, in cui gli sguardi si incrociano e tutti si partecipa ad un solo, unico racconto che disvela la verità o semplicemente il tentativo del verbum che si fa carne di raccontare della fragilità umana.

Per questo il theatron è spazio sacro, è spazio separato, è luogo nel cuore della città, hortus conclusus, giardino delle meraviglie in un tempo anch’esso separato, quello della festa, un tempo pasquale, che permette di andare oltre… di vedere oltre. E dopotutto Pesach – Pasqua - in ebraico significa «passare oltre», «tralasciare». Ed è il sangue dell’agnello sulle porte il simbolo che fa passare oltre l’angelo sterminatore. Il teatro è sacro, il teatro è come dio, è l’incarnazione della parola, è la parola che si fa carne e sangue, è la parola che si offre al coro come trasformazione di pensiero e azione. E allora non si può che concordare con Antonio Rezza quando dice: «Il teatro è come dio, e in più esiste, quindi va rispettato nella sua sacralità».
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