L'ANALISI
01 Aprile 2025 - 05:25
C’è davvero bisogno di più leggerezza, per non finire prede delle volontà totalizzanti. Il ‘tutto’, tra le realtà umane, ha un qualcosa di eccessivo. Se c’è una cosa che non possediamo è la totalità. Possiamo immaginare parti, gustare momenti, abitare un luogo, percorrere tratti. L’illusione del tutto è una sorta di onnipotenza fuori luogo e fuori tempo. Tra gli umani è necessario volare più basso, anche per non cadere con tonfi che appaiono talvolta ridicoli. Basti pensare all’illusione di avere sotto controllo la vita dei figli, di sapere tutto del coniuge, di fare i conti in casa degli altri, di ridursi a guardare per il buco della serratura dei social ciò che riguarda la vita delle persone.
C’è un’interiorità personale che sfuggirà sempre. Nonostante tutto. Hai ragione, Anna, quando te la prendi con la «smania di riempire il Vuoto». I vuoti non vanno necessariamente riempiti. Sono rimandi ad altro. Dicono che c’è dell’Altro. E invece cadiamo nella tentazione di volerli riempire a tutti i costi: le agende sempre fitte di impegni, non abbiamo mai tempo per le relazioni, non conosciamo più momenti di deserto interiore, abbiamo paura del silenzio, riempiamo di parole o di cose i «tempi morti», sostituiamo il tempo da dedicare alle relazioni con regali… Se penso che nel cuore del cristianesimo c’è una tomba vuota, mi viene naturale pensare che ci stiamo perdendo qualcosa. Il Cristo risorto ci ha lasciato un luogo vuoto. Come non rimanere colpiti dalla tentazione narrata nel Vangelo di Matteo (Mt 28,11-15), secondo cui si era voluto spargere la diceria che qualcuno aveva portato via il cadavere? Ciò è avvenuto riempiendo di denaro le tasche dei soldati. Tasche piene, guarda caso! L’uomo fatica a fare i conti con il vuoto. Deve spiegare. Vuole giustificare. Preferisce razionalizzare.
Tuttavia, nei momenti clou della vita abbiamo a che fare con un vuoto. Le scelte importanti si compiono nell’intimità di noi stessi. Le crisi possono divenire opportunità. Le mancanze fanno capire il valore di cose o persone. I lutti rimandano a eredità morali da accogliere. Le sconfitte allenano e temprano. Le lontananze interpellano. Le ferite esistenziali tramandano un corpo vissuto. Coltivo in modo sommesso la passione per la fotografia. Chi mi conosce sa che quelle che chiamiamo foto, se non sono scattate in modo seriale, in realtà sono arte. Custodisco gelosamente quelle di volti vissuti, scavati dalla vita, segnati dalle fatiche e dalle intemperie (anziani, poveri, contadini, pescatori, madri, operai…).
Non ho attrattiva artistica per corpi perfetti, quelli che compaiono - per intenderci - sulle copertine patinate o nei selfie di qualche influencer. Sono corpi artificiali. La bellezza di una ruga non ha confronti. Parla di sofferenze e passioni. Testimonia stanchezze e gioie. Presenta il conto degli anni e delle stagioni. Cosa abbiamo di più rivelativo di un volto? Tra i miei viaggi ricordo con particolare simpatia il Cile. Patagonia cilena, Regione di Aysén, città di Coyahique.
Nella casa del vescovo Luis Infanti de la Mora, servo di Maria di origini friulane, incontro Ramón Belmar. Era l’unico barbone della città, conosciuto da tutti con l’appellativo ‘El Tío’. Lo si vedeva in giro accompagnato dai suoi cani randagi e lo seguiva un odore inconfondibile. Ho ottenuto da lui il permesso di fargli alcune foto. Quelle rughe e quella barba incolta sono uno spettacolo. Parlano da sole. Come è uno spettacolo la Chiesa che ospita e riconosce la dignità di un uomo con un pasto caldo e offre una casetta di legno a chi non ha dimora.
Che impressione un vescovado che puzza di senza fissa dimora! Oggi El Tío non c’è più. La malattia se l’è portato via. Restano le sue foto. Mi sono chiesto molte volte: cosa l’ha portato a vivere per strada? Quali sofferenze ha subito? Cosa cercava davvero in una fredda città della Patagonia? Quale vento lo ha condotto nella piazza principale di Coyhaique? Non ho avuto risposte, e la cosa non mi dispiace. Il vuoto non va riempito, perché rimanda a tutte le altre esistenze simili. Le vite che vivono sotto i ponti, negli anfratti, negli angoli, sotto il tetto di un cavalcavia, fuori dalle stazioni, nelle periferie. La foto del Tío nel mio ufficio mi ricorda ogni giorno quel vuoto. Mi rimanda alle pance vuote. Alle tasche vuote. Alle case mantenute vuote da chi può permettersene più di una.
Il vuoto ha a che fare anche con l’inquietudine che ci abita. Talvolta è insofferenza. Sempre è ricerca. L’inquietudine è un dono straordinario. Consente di non accontentarsi. Di non andare in cerca di risposte preconfezionate e disponibili sottocosto. Vale di fronte alla fede, al mistero di Dio, ma anche di fronte alla vita. Sant’Agostino, un gigante della Chiesa, si era espresso così: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».
Il vero credente è inquieto e sa condividere le sue inquietudini con le donne e gli uomini del proprio tempo. Il cardinal Martini, un vero Padre della Chiesa postconciliare, amava ripetere che in ognuno di noi c’è un credente e un non credente che dialogano. Tanto che, secondo il suo insegnamento, le persone non si devono dividere tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti.
Quanta saggezza dietro a nuovi distinguo! Un testimone del ‘900 come don Primo Mazzolari, prete a cui devo molto dal punto di vista spirituale, inserisce nel cuore di uno dei suoi libri più celebri, Tu non uccidere (1955), questa espressione: «Il cristiano è un uomo di pace, non un uomo in pace». Che forza! Abbiamo bisogno come il pane di costruttori di pace. Ma sentiamo anche l’urgenza di donne e uomini inquieti. Che non si siedono sul divano di casa a commentare i fatti. Che scendono in strada e spezzano i loro sorrisi e il loro tempo con gli altri. Che prendono parte della vita di un quartiere o di una città. Che si sporcano le mani. Che seminano misericordia oltre ogni pretesa di giustizia assoluta.
Fai bene, Anna, a ribellarti a un Dio ragioniere e giustiziere. Non lo accetto neppure io. Sarebbe dargli una qualifica assurda. L’Onnipotente nel senso che potrebbe permettersi tutto. Invece, Dio è onnipotente nell’amore. Si serve di tutta la sua forza per fare dichiarazioni d’amore. Più o meno raccolte. Più o meno cadute. Più o meno ricambiate. Lo immagino così, secondo la felice scena del padre misericordioso di Lc 15. Un Padre che lascia vivere, attende, scruta l’orizzonte, abbraccia, scende a convincere, supplica… Alla faccia di chi è convinto che la supplica tocchi semplicemente alla misera umanità.
Siamo oggetto di supplica, prima ancora che soggetto. Le traiettorie dell’anima atterrano inevitabilmente sulla necessità di chiedere conto a qualcuno di ciò che succede. La tentazione del capro espiatorio è dietro l’angolo. Serve a lavarsene le mani. C’è sempre una condivisione del male che serpeggia nel cuore di ciascuno. Il primo passo verso la conversione del mondo non può che partire da me. Eppure, quanta fatica!
Se il Mediterraneo (…) si è trasformato da culla di civiltà a bara dell’umanità, non è solo colpa di qualcuno. La caccia alle streghe fino a quando durerà? Chi si vuole ancora convincere? La colpevolizzazione delle Ong è solo la punta di un iceberg che si chiama disumanità. Chi fa il bene diventa un problema. Del resto, assume i panni di chi rimprovera alla nostra coscienza tanto sonno e troppa commistione con logiche classiste o razziste. Non è curioso che in Italia nessuno osa dirsi «razzista»? Eppure, quanta gente ha una visione puramente strumentale delle persone. Gli stranieri vanno bene se servono da badanti per i nostri anziani. Ci sono aziende che vanno a prendere manodopera all’estero perché non la trovano in Italia, ma non si deve dire. Altrimenti gli stranieri appaiono necessari: non sia mai!
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