L'ANALISI
STORIE DI GUERRA E RESISTENZA
07 Aprile 2025 - 05:20
Abitanti del Peverone nel 1940, pochi anni prima del fatto
CREMONA - «Da allora, ogni anno il 23 aprile andiamo a messa e poi festeggiamo»: da ottant’anni Rosalinda Bardelli - «Ma sono nonna Lina per tutti» - ricorda la strage mancata alla cascina Peverone di Bonemerse, uomini e donne in piedi per ore, stretti gli uni agli altri per farsi coraggio, e i tedeschi lì davanti con le armi in pugno. Poco lontano, i bambini e le bambine della cascina, anche loro sotto la minaccia delle armi. Accanto a nonna Lina c’è il marito Sandro Galelli, anche lui, nipote di un caduto della Grande guerra, al tempo un bambino del Peverone. Lei è nata nel 1935, lui è del ’31 ma la memoria è ancora vivida.
La guerra era quasi finita - questione di giorni - e anche nel cremonese era un via vai di militari. C’erano i tedeschi in ritirata, gli alleati che avanzavano, qualche partigiano. Passavano il Po a Polesine e cercavano di raggiungere Cremona seguendo le strade basse e i sentieri della golena, tra pioppi, lanche e boschine. A Bonemerse, passavano tutti da Quattro Strade, proprio davanti al Peverone, e poi prendevano per le Cà Basse, Bagnara, il Battaglione, San Sigismondo e la Villetta, e finalmente erano in città.
«Quanti soldati ho visto in quei giorni - ricorda nonna Lina -, di notte arrivava qualche disertore isolato, veniva in cascina a cercare vestiti vecchi, camicie, qualsiasi cosa pur di liberarsi dalla divisa. Erano tutti affamati. Anche noi abbiamo salvato delle persone. Erano tedeschi, però erano disperati e abbiamo fatto il possibile per aiutarli». Non erano tutti cattivi, i tedeschi. «Dopo il bombardamento del ponte dell’estate del ’44 - ricorda la signora Lina -, mio padre era stato costretto a fare la legna e a trasportarla di notte al posto dove stavano facendo il ponte di barche perché, tra i vari incarichi che aveva, c’era anche quello di capo-uomo dei cavalli. Aspettava il passaggio di Pippo (l’aereo da caccia notturno degli alleati che negli ultimi mesi di guerra ha tenuto svegli gli italiani sorvolando città e paesi, ndr) e poi partiva con il suo carro, consegnava la legna ai tedeschi e poi tornava. Una volta è arrivato a casa con un bel pezzo di legna per il fuoco. Un tedesco glielo aveva lasciato, dicendogli di usarlo per scaldare i suoi bambini. Pensandoci, mi commuovo ancora adesso».
Molti altri militari, invece, facevano ancora parte del loro plotone, marciavano in gruppi relativamente compatti. E passavano tutti di lì, da quella strada. Al Peverone poi si erano fermati alcuni ufficiali tedeschi, avevano occupato una parte della cascina e «passavano il tempo a mangiare e a bere, ci avevano preso quel poco che avevano». In cascina, in quei giorni di aprile, si ferma anche un gruppo numeroso di soldati tedeschi. Arrivano da sud, probabilmente dalla Toscana perché si portano dietro dei buoi maremmani, quelli grandi grandi con le corna lunghe. Con loro ci sono una ventina di prigionieri americani, osservati a vista. Sono un ‘bottino’ prezioso, gli americani. Ai tedeschi possono servire come salvacondotto oppure per fare scambi di prigionieri. Due o tre di loro, però, sono feriti seriamente ed è impossibile proseguire perciò si fermano tutti al Peverone.
«A noi bambini era stato detto di non avvicinarci - ricorda nonna Lina, parlando anche a nome del marito -, però di nascosto siamo andati tutti a vedere. So che un prigioniero era ferito a una spalla, un proiettile l’aveva attraversato da parte a parte. L’altro, invece, era ferito a una coscia e non riusciva a camminare». Malgrado il divieto, i bambini si spingono nella zona proibita, sgusciano e si arrampicano, sono curiosi e cercano di non perdersi una mossa. «Di prigioniero ne ho visto uno solo, mentre lo medicavano - dice la signora Lina -, noi eravamo ben nascosti». Nella notte tra il 22 e il 23 aprile, però, gli americani scappano. O meglio, vengono fatti scappare. A ricordare l’episodio, alcuni anni fa, è stato anche Renato Bodini, che all’epoca aveva 13 anni e che qualche anno fa ha registrato un video per Angelo Garioni. Gli americani vengono fatti fuggire, seguendo una roggia arrivano al cimitero e da lì raggiungono la frazione di Carettolo dove possono tirare il fiato in una vigna.
Ed è in cascina che comincia la lunga, lunghissima giornata di terrore. La reazione dei tedeschi, quando si accorgono della fuga, è rabbiosa, feroce. Entrano nelle case urlando, obbligano tutti a uscire: le donne, i vecchi, i bambini, i pochi uomini che non sono al fronte. Una mitragliata contro il muro, giusto per far capire chi comanda e che non si scherza. Gli stessi soldati e gli stessi ufficiali che fino a poco prima hanno convissuto relativamente in pace con la gente del Peverone ora sono pronti a uccidere. I tedeschi fanno mettere gli ostaggi contro il muro della stalla, davanti a loro si posizionano un soldato con la mitragliatrice e un altro a terra con un rotolo di munizioni. Poi i bambini vengono separati da genitori.
«Volevano sapere da noi chi fosse stato a far scappare gli americani e dove fossero finiti», dice nonna Lina. «Avevamo intuito cosa fosse successo e chi fosse stato, ma nessuno di noi ha parlato. Ci hanno preso a uno a uno, dicendoci che se non avessimo parlato avrebbero ucciso i nostri genitori e tutti gli altri grandi - continua il racconto -. So chi è stato, ma non l’ho detto allora e non lo dirò mai. L’avevamo capito in tanti e siamo stati tutti zitti». «Non trovare americani, uccidere voi italiani», continuavano a ripetere i tedeschi nel ricordo di Bodini, e sono parole che non hai mai dimenticato. Seguono ore incerte, di paura e trattative.
Aldo Guereschi, fittabile del Peverone, cerca di convincere i tedeschi a rilasciare gli ostaggi. Piangono tutti, tutti credono di dover morire da un momento all’altro eppure nessuno parla. Il nome, quel nome non lo fa nessuno. I tedeschi hanno perso tutto e lo sanno. Sanno - o forse temono - che in zona ci sono i partigiani. Sanno anche che gli alleati non sono lontani. Potrebbero compiere un gesto disperato, ammazzare per il gusto di farlo. Potrebbero, ma non lo fanno. Lasciano il Peverone, qualcuno abbandona la divisa e cerca un abito civile. La strada per il Brennero è ancora lunga e chissà quanti di loro sono riusciti a tornare in Germania. Per gli abitanti del Peverone - all’epoca in cascina c’erano tredici famiglie - la paura a poco a poco si stempera e comincia il ricordo. «Nell’autunno del ‘45, l’allora sindaco di Bonemerse ha segnalato questo episodio al Cln di Cremona, che raccoglieva testimonianze di episodi di resistenza - conferma Liliana Ruggeri, appassionata storica e ricercatrice locale -. Il documento risulta ancora nei registri del Comune».
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