L'ANALISI
30 Marzo 2025 - 05:10
Miniatura del X secolo raffigurante Luca evangelista
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: ‘Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta’. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: ‘Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati’. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: ‘Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio’. Ma il padre disse ai servi: ‘Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: ‘Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo’. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: ‘Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso’. Gli rispose il padre: ‘Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato’».
(Lc 15,1-3.11-32)
L’evangelista Luca è raffigurato nella simbologia classica con un bue: animale prezioso e umile, paziente e fondamentale per la coltivazione spesso dura della terra. E non è un caso: Luca conserva una collezione straordinaria di parabole, per lo più giocate sul tema della misericordia, del perdono e dello stile che Dio sceglie di rivelare nel suo rapporto con la storia umana. Già la scorsa domenica il piccolo, ma preziosissimo brano della pazienza portata sulla pianta che non dà frutto, era un eloquente esempio di questa sottolineatura. Anche oggi, nel brano oggetto di Eucaristia nelle assemblee liturgiche domenicali, torna una parabola, una delle più note.
Luca la costruisce in un contesto polemico, fatto di sospetti e di mormorazioni: gli antagonisti di Gesù cercano di delegittimare la sua predicazione, cogliendo la contraddizione tra le sue parole e la condizione impura delle sue frequentazioni. Ma Gesù è recuperato di continuo da folle di ultimi, malcapitati, marginali, che rendono lui stesso un Ebreo marginale. Dentro questa cornice, e solo qui, la parabola acquista tutta la sua forza. Il suo genere letterario è sbilanciato, incrinato… è come se corresse verso conclusioni paradossali che non ci si aspetterebbe, perché contrarie alla logica umana, per non dire al buon senso comune. Solo così questo racconto può ospitare, evocare ed esprimere l’amore di Dio che Luca ha in testa.
Qui a tema non ci sono regole educative, ma ‘solo’ teologia: l’evangelista non intende prendere posizione nella polemica, mai sopita ed oggi esacerbata, tra buonismo e rigorismo educativo, tra esecuzioni di sentenze giuste e amnistie più o meno deboli. La parabola muove i suoi passi drammatici appellandosi alla condizione umana: prima l’arroganza, poi la durezza della vita, quindi la crisi e l’intuizione di una soluzione accomodante.
Ma poi tutto esplode in rara bellezza letteraria, quella che un autore come Rembrandt ha espresso in un’opera forse insuperabile (databile 1668 e oggi al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo): un uomo anziano che accoglie uno più giovane in un abbraccio al contempo paterno e materno, come indica la finezza delle due mani differenti; e sullo sfondo sguardi attoniti, forse paralizzati dentro una testimonianza inaspettata. Ed è molto bello che si possa leggere il brano odierno alla luce del messaggio centrale scelto per il Giubileo: spes non confundit, la speranza non delude.
Sulla speranza, sulla certezza dell’amore di Dio non possiamo sbagliarci. Non è possibile mercanteggiare questa grande rivelazione con alcun merito e alcun codice religioso. E solo una parabola, con la sua narrazione che sfugge di mano a traduzioni solo umane e razionali, può incaricarsi di raccontare il miracolo dell’amore, e dell’amore di Dio. E proprio nel cuore della parabola tutto subisce una sterzata che l’obiezione ragionevole del figlio maggiore non può neppure scalfire. Bisognava far festa.
Immaginiamo i volti, le posture, il tono di voce: l’atteggiamento sommesso del figlio minore, che torna con la coda tra le gambe e si accontenterebbe di un accomodamento minino… la rigidità del figlio maggiore, carico delle sue ragioni dettate dalla giustizia materiale… il sorriso del padre che non arretra, ma sa esultare e sa vedere quello che altri non vedono più. Siamo davanti all’imperativo che scaturisce dal cuore di un genitore che riaccoglie nella libertà più grande una libertà deformata. Siamo immersi nel senso più profondo del Vangelo: poi possiamo crederci o no, esserne convinti o meno, ma è il suo grido straordinario.
Qui si mette in scena solo l’amore sorprendente di Dio che rimette in cammino i suoi figli. Non si avvalla il male: lo spreco c’è stato ed è costato un prezzo altissimo, come l’amarezza del distacco arrogante, lo sciupare di risorse e l’avvilimento di corpi, amori e passioni. Ma i conti non tornano solo con saldo negativo: c’è un di più che la Quaresima vuole ricordare a tutti. Perché si arriverà davvero a Pasqua solo se allenati a riconoscere l’opera di Dio, che non è quella degli uomini. Parole come sacrificio, salvezza, riconciliazione, redenzione… non sono pezzi di cose religiose confezionate per Dio da uomini e donne devoti. Sono piuttosto il balbettio umano di come Dio ci ama. Il balbettio del Vangelo.
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