L'ANALISI
25 Febbraio 2025 - 05:25
Nel 2005, l’influente consigliere politico cinese Zheng Bijian rassicurava sulle pagine del Foreign Affairs che il potere crescente della Cina non avrebbe minato la sicurezza dei Paesi stranieri. Zheng garantiva infatti che Pechino aveva adottato «una strategia […] per trascendere i tradizionali modi di affermarsi delle grandi potenze». L’espressione ‘ascesa pacifica’ (heping jueqi) fu coniata da Zheng e divenne subito dottrina di Stato ufficiale, a cominciare dalla presidenza di Hu Jintao, che quasi contemporaneamente all’articolo di Zheng pronunciava alle Nazioni Unite un discorso intitolato ‘Costruire un mondo armonioso di pace durevole e prosperità comune’.
Per il Dragone l’obiettivo era quello di evitare, o quantomeno ritardare, l’implementazione di una politica di contenimento nei suoi confronti, come di consueto è accaduto nella storia contro quelle potenze assertive in rapida ascesa. Affermando che la Cina non avrebbe seguito le orme della Germania guglielmina, Zheng negava sul piano logico la divisione del mondo in blocchi e coalizioni contrapposte.
Tuttavia, dato che per il Dragone coltivare l’armonia non precludeva il perseguimento del vantaggio strategico – innanzitutto dal lato militare –, la dissimulazione di Pechino non sarebbe durata per sempre. Nel 2008 il Pivot to Asia voluto dall’amministrazione del presidente americano Barack Obama sanciva la definitiva ascesa della Cina ad avversario strategico del Numero uno. Il dibattito sull’ascesa pacifica è continuato negli anni seguenti e informa tutt’oggi le discussioni di chi vorrebbe una postura occidentale più morbida nei confronti della Cina.
E la Cina, infatti, non è mai stata ‘demonizzata’ — al pari della Russia – nell’ottica di evitare uno scontro diretto tra Pechino e Washington nel futuro prossimo, favorendo invece una redistribuzione pacifica del potere nel sistema internazionale.
Non tutta la società e gli apparati cinesi appoggiano la tesi dell’ascesa pacifica. Nei momenti seguenti la crisi finanziaria del 2008, che colpì gravemente le economie occidentali, svariate critiche, provenienti anche da figure di spessore accusavano l’Occidente di rimanere una potenza pericolosa, che non avrebbe mai consentito alla Cina un’ascesa armoniosa. Pechino doveva quindi rivendicare il diritto di definirsi una superpotenza e avvalersi di un atteggiamento più assertivo sulla scena internazionale.
In quegli anni due libri, diventati bestseller, documentano l’aspirazione di rivalsa del popolo cinese. ‘La Cina è infelice’ (2009) di Song Qiang e ‘Il sogno della Cina’ (2010) di Liu Mingfu, sono due opere profondamente nazionalistiche, passate indenni alle critiche governative e che hanno riscosso un ampio successo. Il governo sentì comunque la necessità di prendere parte al dibattito, in modo da rassicurare che le opinioni espresse nei libri non fossero la posizione ufficiale del Partito, che si impegnava invece in senso opposto. Dai Bingguo, nel 2010 consigliere di Stato – il funzionario di grado più alto preposto alla politica estera –, rispose alla preoccupazione degli osservatori stranieri scrivendo un articolo intitolato ‘Continuare a seguire la strada dello sviluppo pacifico’, pubblicato sul sito del ministero degli Esteri.
Tra le altre cose, Dai controbatteva a chi riduceva la teoria dell’ascesa pacifica a una mera tattica per puntare segretamente al predominio sul mondo. Per lui evidentemente si trattava di un sospetto infondato, dato che la Repubblica Popolare non intendeva dare ascolto all’antico adagio cinese: «nascondere le proprie risorse e attendere il momento opportuno per cercare di ottenere qualcosa».
Secondo il ricercatore Su Jingxiang, poiché il modello di sviluppo seguito dalla Cina è profondamente legato alla contingenza storica della globalizzazione americana, ed è inoltre in armonia e non in opposizione all’ordine internazionale esistente, l’ascesa di Pechino non può che essere pacifica. Il profondo legame economico-finanziario tra i due grandi avversari di questo secolo segna infatti una grande differenza con la Guerra Fredda, dove Unione Sovietica e Stati Uniti erano impegnati in una competizione totalizzante. Dovrebbe essere dunque un freddo calcolo di costo-opportunità a mitigare la competizione tra Washington e Pechino, dato che le economie degli attori coinvolti soffrirebbero troppo da un loro disaccoppiamento.
La guerra in Ucraina ha però nuovamente dimostrato la fallacia dell’assunto liberale per cui ‘dove passano le merci non passano gli eserciti’. Pechino, come ogni grande potenza, pare essere disposta a rinunciare a fette di benessere economico pur di perseguire la sua agenda geopolitica – a partire dalla conquista di Taiwan. E il potere economico e militare, accumulato grazie alla globalizzazione americana, ha rafforzato la fiducia, l’orgoglio e le capacità della Cina di perseguire con convinzione i propri obiettivi.
Sembra infatti che la tesi presente nel libro dell’ufficiale Liu Mingfu, riguardo al fatto che la Cina, tenuto conto della condotta amorale delle grandi potenze, potrà avere successo solo se costruirà delle forze armate competitive, sia oggi la strategia realmente perseguita dalla dirigenza pechinese. A testimoniarlo, almeno un decennio di costante incremento delle spese militari. Nel 2022 Pechino spendeva in difesa ufficialmente 229 miliardi di dollari, ma secondo i calcoli dell’American enterprise institute (Aei) il budget militare della Cina potrebbe aver toccato i 711 miliardi di dollari reali nello stesso anno. Una cifra quasi paragonabile a quella statunitense (916 miliardi di dollari nel 2023). Le autorità cinesi non conteggerebbero alcuni costi nella cifra ufficiale fornita ogni anno, con lo scopo di celare le proprie reali capacità militari.
Il noto politologo americano John Mearsheimer lo affermava già nel 2005: se la Repubblica Popolare avesse continuato la sua impressionante crescita economica, avrebbe tentato di stabilire la sua egemonia in Asia. L’obiettivo ultimo della Cina sarebbe stato quello di espellere le potenze straniere dal suo estero vicino, come fecero gli Stati Uniti nel XIX secolo attraverso la dottrina Monroe. L’effetto sarebbe stato quello di innescare il classico dilemma della sicurezza, che avrebbe portato a un aumento esponenziale delle tensioni e delle spese militari tra Washington e Pechino, nonché della possibilità di una guerra.
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