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A 80 anni dalla fine della guerra

La testimonianza di Daverio Ferrari, partigiano della II Brigata Matteotti, raccolta dall’amico Mario Lodi: «I tedeschi in riva al fosso attenti alle briciole del pane»

Barbara Caffi

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bcaffi@laprovinciacr.it

17 Gennaio 2025 - 09:29

CREMONA - «L’americano ha voluto sapere i nostri nomi e ci ha promesso un premio di 3.000 lire. All’una, mentre stavamo mangiando al Comitato di Liberazione di Drizzona, il bollettino radio comunicò la cattura dei tedeschi e il compenso che avremmo avuto, e che non abbiamo mai ricevuto»: si conclude così, con una chiusura amara e al tempo stesso beffarda, la vicenda di cui Daverio Ferrari è stato protagonista, il 28 aprile del 1945.

La sua testimonianza era stata raccolta da Mario Lodi, amico, compaesano e quasi coetaneo (Daverio era nato nel ’20, il maestro due anni dopo) ed è ora il figlio Giovanni a renderla nota. Daverio, che morirà nel 2015, cresce durante il fascismo, ne respira l’aria oppressiva.

I suoi vent’anni coincidono con «l’ora delle decisioni irrevocabili» di Mussolini e della sciagurata entrata in guerra dell’Italia. Ferrari fa la leva nei Bersaglieri e nel ’40 è mandato in Albania, che dall’anno precedente è protettorato italiano - di fatto è un Paese annesso - e che serve soprattutto come base della (fallimentare) campagna di Grecia.

I porti di Durazzo e Valona, villaggi di montagna o postazioni di pianura: Daverio segue le sorti dell’esercito italiano e dei suoi commilitoni, obbedisce agli ordini e, soprattutto, documenta ciò che accade al campo. Appassionato di fotografia, impressiona decine e decine di rullini, immagini uniche ed eccezionali che raccontano non tanto i momenti bellici, ma le ore di pausa: la messa al campo, il bagno al fiume, il ballo nel prato al suono di una fisarmonica. Ore strappate alla guerra, al sangue, alla paura e alla morte che tutto pervade. Ore che restituiscono un po’ di giovinezza a una generazione che ha visto i propri vent’anni trasformati in carne da macello, che richiamano gli affetti lontani e la vita di tutti i giorni là dove sono state lasciate le famiglie. Non mancano alcuni momenti più ufficiali. Tra il 29 aprile e il primo maggio del 1941, anno XIX dell’era fascista, Benito Mussolini visita l’ospedale di campo e Ferrari lo immortala: «Ecco il nostro Duce - scrive sul retro della foto-cartolina - mentre passa nei viali del nostro ospedale aclamato (scritto così, con una sola c) da noi tutti in coro con vivissime grida».

Ferrari, l’ospedale lo conosce bene perché ci lavora. E anche qui non manca di scattare fotografie: mentre trasporta un ferito su una barella, per esempio, o mentre aiuta i chirurghi in sala operatoria. Scatti ormai ingialliti, lontani dai fasti celebrativi dei fotografi ufficiali e per questo tanto più preziosi.

In ogni caso, Daverio resta in Albania fino al ’43, rientra in Italia perché deve consegnare dei documenti. L’8 settembre, quando l’armistizio di Cassibile è reso noto, è a Milano e decide di non rientrare nei ranghi di un esercito abbandonato a sé stesso e senza ordini. Torna a Piadena, prende i primi contatti con le formazioni partigiane che cominciano a formarsi. Pochi mesi dopo, qualcuno lo denuncia e finisce in carcere a Brescia. Il 13 luglio del ’44, durante il bombardamento alleato al castello, Ferrari è tra i circa duecento detenuti che riescono a scappare. Si nasconde nei pressi di Asola, aderisce convintamente alla Resistenza ed entra nella II Brigata Matteotti. Ed è a guerra ormai finita, almeno sulla carta, che Daverio Ferrari è tra i protagonisti dell’episodio testimoniato anni dopo a Mario Lodi. La mattina del 28 aprile, Ferrari, Giovanni Santi (classe 1907), Omobono Barosi (1909) e Angelo Luzzeri (1899) e altri otto partigiani devono raggiungere la pietra miliare tra Drizzona e Castelfranco d’Oglio per «ritirare cinquanta prigionieri polacchi che si sono arresi».

I dodici si dividono in tre gruppi, temono la presenza dei tedeschi in ritirata: sono sconfitti sì, ma non tutti sono disposti ad arrendersi. Ferrari e gli altri tre arrivano al luogo dell’appuntamento, si riparano vicino a un capanno di pietra al limitare di un campo di grano.

«Tutto sembrava calmo - ricorda Ferrari -, ma ad un tratto abbiamo visto un soldato tedesco che, rotolandosi nel grano, ha raggiunto il fosso che divideva il campo di grano da un altro campo. Allora abbiamo deciso di catturare quel tedesco. Il soldato era nascosto nel fosso, a circa quaranta metri da noi. Siamo avanzati verso il fosso attraversando un campo piano e prima che noi arrivassimo là, dal fosso cominciò un fuoco a raffica di mitraglie. Ci siamo buttati a terra, ci siamo liberati delle bombe a mano per evitare che, colpite, scoppiassero, e restammo là bloccati».

Barosi riesce a scivolare in un fosso trasversale e, carponi, raggiunge Castelfranco. Luzzeri, «colpito di striscio al berretto, credeva di essere ferito e piangeva». All’improvviso, intorno ai tre partigiani scoppiano sette-otto bombe a mano. «E abbiamo capito che non era un solo tedesco, ma tanti. Erano 121».

I tre vengono catturati e disarmati, il colonnello strappa loro le coccarde rosse e si prende i portafogli. A pochi metri di distanza, quattro soldati puntano le armi contro il gruppetto. «In quel momento - prosegue la testimonianza di Ferrari - passavano quattro bambine di circa dieci - dodici anni con le sporte piene di pane che avevano ritirato dal fornaio Giovanni Cerioli di Drizzona e portavano a Castelfranco. Altri tedeschi, usciti dal fosso, portarono via il pane alle bambine e se lo divisero. E cominciarono a mangiarlo: si vedeva che erano affamati. E noi, fermi lì, li vedevamo spezzare il pane e mangiarlo tenendo la mano sotto il pane per raccogliere le briciole che cadevano. Le bambine, impaurite, sono rimaste lì bloccate, senza rendersi conto di ciò che stava succedendo».

Intanto, arrivano i rinforzi. Qualcuno del Cln di Drizzona sente gli spari e comunica a Piadena «di dirottare tre carri armati americani che si stavano dirigendo verso Cremona». Il rumore dei cingolati rompe il silenzio, il colonnello tedesco ordina a tutti di scendere nel fosso. «Uno dei tre carri si avvicinò a circa trenta metri e si fermò proprio di fronte al fosso, col cannone puntato - prosegue Ferrari -. Scese un sottufficiale americano con la pistola in mano, si pose davanti al carro e sparò alcuni colpi in aria. Nel fosso alcuni tedeschi cominciarono a disporre il pugno corazzato per far saltare i cingoli».

Potrebbe essere l’inizio di una inutile strage, l’ennesima di quei giorni incerti. «Ma il colonnello tedesco diede il segno di resa - dice Daverio -: uscito dal fosso, si è strappato i fregi e le spalline e ha fatto segno ai soldati di uscire. Una parte ha obbedito, altri invece nascondevano le armi e restavano lì. L’americano ha domandato al tedesco se i partigiani catturati erano ancora vivi. Lui ha detto di sì e ci ha fatto uscire. L’americano ci ha stretto la mano e ci ha fatto salire sul carro armato. Contemporaneamente sono arrivati gruppi di partigiani da Isola Dovarese, da Canneto (fra i quali Enea Camisani) che hanno incolonnato i 121 tedeschi già disarmati, portandoli al concentramento di Piadena».

In quell’angolo di campagna, dove la linea dell’orizzonte è rotta solo da filari di pioppi e sparuti campanili, in uno scenario che ricorda la Guerra di Piero di De André, la guerra finisce davvero.

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